Arcade Fire – I-Day Festival, Arena Parco Nord, Bologna


Dopo i primi due brani suonati dagli Arcade Fire a Bologna, Ready to start e Month of May, l’idea che il successo riscosso dal terzo disco del gruppo canadese sia quanto meno inspiegabile, prima solo abbozzata, si è fatta convinzione assoluta. Non riesco a farmene una ragione perché il panorama musicale di questo fine decennio non è certo dei più rosei, almeno in termini di vendite. In Inghilterra, a fare compagnia a Win Butler e consorte, nella top ten delle vendite troviamo Eminem, Lady Gaga, Michael Bublè, Yolanda be Cool, per citarne solo alcuni. Desolante. Se poi ci raffrontiamo all’Italia la situazione si fa terrificante, ad essere gentili.

Non riesco a farmene una ragione perché, oltretutto, la loro non è musica “facile”, da ascolto distratto e casuale. Così, non appena ho visto l’Arena Parco Nord di Bologna stipata da 10000 persone in attesa degli Arcade Fire, ho avuto sentimenti contrastanti. Prima, in linea con la causticità del mio carattere, ho pensato “modaioli”. Modaioli dal momento che la maggior parte dei presenti probabilmente li ha conosciuti su MTV, o per bocca di Chris Martin, o David Bowie, o degli U2, che non avendo più canzoni decenti da suonare hanno deciso di aprire l’ultima tournee con una loro cover. Modaioli perché gli Arcade Fire esistono dal 2003 e dopo il primo disco, a mio avviso uno dei più bei esordi degli ultimi 10 anni, di sicuro non c’è stato questo riscontro di pubblico.

Quasi in contemporanea, però, mi sono entusiasmata, per poco commossa.
Ho capito cosa stava succedendo e realizzato che non stavo semplicemente assistendo ad un “bel” concerto alla moda, ben reclamizzato per radio e in TV. L’atmosfera non era quella dei club minuscoli da “Indie snob” e nemmeno quella da stadio nazionalpopolare alla Vasco Rossi. C’era davvero gente venuta per ascoltare buona musica, saltando e ballando, accompagnando i coretti, riconoscendo i pezzi che stanno rendendo la band canadese così famosa.
Il mio proverbile cinismo ha dovuto questa volta, e per fortuna, farsi da parte.
Gli Arcade Fire, lo scrivo ora e in ritardo se qualcuno ancora non li conoscesse, sono una specie di collettivo canadese, nel senso che attorno alla coppia Butler/Chassagne ruotano altri sei musicisti, con in comune l’influenza della New Wave anni ’80 e un’infinità tale di contaminazioni da rendere praticamente impossibile definire anche solo in modo approssimativo un genere di riferimento. Dopo la partenza molto ruvida, il concerto ha preso pieghe più emotive, legate soprattutto ai grandi successi di Funeral, Neighborhood #1 e Crown of love, in cui gli otto sul palco hanno iniziato a scambiarsi gli strumenti, arpe, viole, percussioni, facendo esplodere la dinamica visiva e musicale dell’esibizione. Certo Win Butler non sarà ricordato per avere una voce strabiliante, e la sua compagna, anche nella vita, Regine Chassagne, qualche stecca la prende, muovendosi a festa quasi fosse una “vispa teresa” dei giorni nostri, ma la compattezza del suono, la raffinatezza di arrangiamenti e linee melodiche creano semplicemente stupore, meraviglia, come se tutto fosse dannatamente al proprio posto.

Dopo i tre pezzi dal nuovo album, The Suburbs, Spawl II, The Suburbs e Suburban war, ballata, quest’ultima, struggente nella sua circolarità cantilenante, il pathos era già esploso e su Intervention eravamo già tutti consapevoli di assistere ad una lunga cavalcata attraverso i brani dei primi due lavori discografici, da Haiti a Rebellion fino alla forse più attesa Wake up.

Abbandono l’arena convinta di aver ascoltato e visto il più bel concerto dell’anno riflettendo, che due giorni più tardi, sullo stesso palco, saliranno i Blink182, forti di un preannunciato sold-out, sulla carta i veri headliners dell’Indipendent Day.

Nuovamente in linea con i miei personali cinismi, giungo allora alla conclusione che se i media passassero frequentemente notizie verosimili, promuovessero film interessanti, o band come gli Arcade Fire forse non saremmo costretti ad assistere a stadi riempiti dal Luciano Ligabue di turno, non me ne voglia. Mi sono commossa perché gli otto canadesi sul palco di Bologna non sono i Coldplay e non hanno singoli altrettanto efficaci a livello radiofonico, e l’entusiasmo mio, come del pubblico, non era dettato solo dall’aspetto visivo dello spettacolo, dalla contagiosità del live. Siamo in grado di riconoscere il ”bello”, quando ce ne viene data l’opportunità, anche quando non è immediato, quando è “difficile”, non commerciale.

Per questo sono d’accordo con quanti ritengano gli Arcade una delle novità più importanti di sempre, non solo per le loro indiscusse capacità o per il valore dei loro tre album ma anche per essere riusciti a portare a platee sempre più vaste musica che fino ad ora era relegata tra i vinili dei più appassionati, o di chi, per maggior curiosità o voglia, semplicemente sceglieva cosa ascoltare invece di subire passivamente le onde medie del belpaese.

Sono d’accordo, perché il buon gusto musicale sarà, sì, assonnato, ma di sicuro non è ancora morto.

Tracklist:

01-Ready to Start
02-Month of May
03-Neighborhood #1 (Tunnels)
04-Crown of Love
05-Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)
06-The Suburbs
07-Suburban War
08-Intervention
09-Modern Man
10-No Cars Go
11-Haïti
12-We Used To Wait
13-Neighborhood #3 (Power Out)
14-Rebellion (Lies)
encore break
15-Keep The Car Running
16-Wake Up

Link utili:

(testo e foto di Francesca Sara Cauli)

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3 thoughts on “Arcade Fire – I-Day Festival, Arena Parco Nord, Bologna”

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