Nazionali con filtro (The National, Alcatraz)


Milano non è di sicuro la mia città, con tutto il rispetto per i milanesi, sia chiaro. Ero ospite da un amico, ad otto chilometri dall’Alcatraz. Otto chilometri, a Milano, e nemmeno all’ora di punta, significano ¾ d’ora di coda, 45 semafori, uno a cento metri dall’altro, inspiegabili zone a traffico limitato, nonostante fossimo decisamente lontani dal centro. Il tutto sotto una pioggia fina e continua, che l’Emilia Romagna, a confronto, con la nebbia, i colli e tutto il resto, sembra il posto con il clima più secco del mondo. Meglio sorvolare, poi, sul versante parcheggi.

La bellezza dell’Alcatraz, tutto sommato, ha compensato gli sforzi per raggiungerlo. Locale ampio, spazioso, gremito per il concerto dei National e con un impianto e un’illuminazione sul palco davvero notevoli, anche se sei euro per una birra mi sono sembrati eccessivi.

Una bella atmosfera riempie il locale, a far da contrasto al freddo in cui abbiamo aspettato l’apertura dei cancelli, il pubblico è variegato, come età, come genere, non il solito concerto “indie” a braccia conserte, tanto per capirci.

L’aria è carica d’attesa, oltre duemila persone ascoltano con educata noia i Phosphorescent, gruppo spalla, per un’ora. Alle 21e50 il quintetto di Brooklyn fa la sua comparsa sul palco, accompagnato da una vera e propria ovazione. Ci si aspetta davvero il concerto dell’anno, uno di quegli eventi di cui poter dire, tra qualche tempo, io c’ero. Il primo brano, Runaway, fa ben sperare. La voce di Matt Berninger è calda e avvolgente, il suono dei fratelli Dessner e Davendorf compatto, pieno, racchiuso in un buio completo tagliato da un flebile fascio di luce sul cantante. A seguire, il concerto si rivela al pubblico alternando successi dall’ultimo e dal penultimo lavoro in studio, High Violet e Boxer, con qualche incursione nei primi album, senza tuttavia mantenere le promesse dell’apertura. La batteria, mal equalizzata e bassa di volume, perde di incisività, rispetto alle registrazioni di studio; Matt Berninger continua a vagare tra il microfono e la bottiglia di vino bianco, che rende molto informale e intimo il tutto, ma progressivamente svanisce anche la profondità del cantato; chitarristi e bassista lo seguono con lo sguardo e smorzano la carica iniziale, trascinati dalla deriva del frontman.

Forse la colpa è dell’aria grigia che si respira nella notte milanese, avvolta dalla pioggia costante, o del traffico che i due tourbus hanno affrontato nel pomeriggio con non pochi disagi. O probabilmente, per chi ha suonato a Glastonbury e per Obama nella sua lunga tournee presidenziale, l’Alcatraz è poca roba e non richiede troppo impegno. Molti, in sala, se ne accorgono. Nessuno balla o batte le mani o dimostra di partecipare con coinvolgimento al live. Poche grida, e di certo non per l’eccessiva civiltà e sobrietà del pubblico. In un’ora e mezza tutto finisce con Matt che canta Terrible Love letteralmente in mezzo al pubblico, portandosi dietro il microfono. Attraversa tutto il locale, si fa abbracciare e lentamente guadagna l’uscita, si rifugia nell’autobus che li riaccompagnerà in albergo. Più una fuga che un’esigenza di contatto con i fan.

Rimango un poco delusa per uno spettacolo ed un quintetto che aspettavo da tempo, un pacchetto di Nazionali con filtro non mi manda in visibilio, fuori la pioggia persiste mentre si sfolla in silenzio.

(testo e foto di Francesca Sara Cauli)

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