“Però io sono serbo e non ho fatto niente!”

Ci eravamo preparati al viaggio in Serbia leggendo “Serbia Hardcore” di Dusan Veličković, dove si dicedi Belgrado nei giorni dei bombardamenti NATO, dove si racconta di un bambino che scoppia a piangeredavanti alla TV che dà notizia dei campi di concentramento serbi in Bosnia e dice “Però io sono serbo enon ho fatto niente!”. Dove le responsabilità politiche vengono spiegate chiaramente e sono additati senzareticenza crimini e criminali di guerra. La posizione di Veličković, come quella di chiunque sul nazismo, sulfascismo o sullo stalinismo, ci era sembrata scontata. Eppure non lo è.
Il primo sospetto in una panineria di Belgrado da dove, attraverso la vetrina, si vedeva un adesivo suun palo con il ritratto di un militare fatto con lo stencil. Berretto con la visiera, espressione crudele.Nessuno di noi sapeva chi fosse e, chissà, forse per via della visiera, abbiamo pensato a qualche dittatoresudamericano.

Il giorno dopo, bighellonando intorno alla stazione, abbiamo visto un banchetto con in mostra dellemagliette nere con simboli che minacciosi è dire poco e facce di militari altrettanto poco rassicuranti. Unbrivido ci ha percorsi, non volevamo sapere chi fossero le facce su quelle magliette, però allo stesso nonpotevamo stare senza saperlo. Al terzo, non proprio casuale passaggio davanti al banchetto, ci siamofermati. So di essere brava a fare l’espressione svampita di chi cade dalle nuvole e ho chiesto di chi fossela faccia che mi sembrava più cattiva di tutte. L’uomo mi ha risposto in un italiano stentato: Ratko, è ilcomandante Ratko. Chi è il comandante Ratko? Non conosci il comandante Ratko? Grande eroe per laSerbia. Ratko Mladic. Maldic? Sì, Mladic. No, mai sentito, faccio io.

L’uomo passa poi a spiegarmi gli altri simboli ma parla malissimo, io non capisco e ho pure un po’ di timorea chiedere spiegazioni. Teschi, ossa, teste di lupo, croci celtiche, cose inquietanti. Paradossalmente il tipoè molto amichevole, si chiama Naser (o qualcosa del genere), ci presenta i suoi amici e con loro si passasubito a parlare della bellezza incomparabile delle città italiane dove tutti hanno un parente o un amico.Facciamo per congedarci, compriamo l’unico portachiavi che non abbia richiami militari, nazionalisti oviolenti, Naser ci ringrazia e chiede di essere fotografato (io ho la macchina al collo).

L’incontro con Naser non ci avrebbe impedito di scandalizzarci davanti ad altri banchetti di magliette egadget ultranazionalisti a Guca, un paese a duecento chilometri da Belgrado, durante il tradizionale festivaldelle orchestre di ottoni. Bandiere e aquile serbe ovunque, tutti con il cappello dell’esercito (una speciedi fez), banchi con riproduzioni di armi vere. Ma i brividi di paura per scritte come “Serbian commandos”sarebbero stati spazzati via da quello per un energumeno vestito da paramilitare che si pavoneggiava avantie indietro lungo la strada principale del paese. Quando ti capitano questi incontri è inevitabile, cominci atremare, ci pensi su parecchio, scatti a casaccio e subito ti volti.

Erano passati pochi giorni dal parere favorevole dell’ONU sull’indipendenza del Kosovo e io, seppurtimorosa, volevo sapere cosa ne pensava qui la gente. A Guca, durante il festival, si conosce tantissimagente. Per fare amicizia basta acciaccare il piede a qualcuno per sbaglio ballando o saltando al ritmoforsennato dei loro fiati. Ebbene, quelli che erano diventati i nostri amici serbi, quelli che quasi ciimbarazzavano per la cortesia, che ci offrivano sempre da bere, che ci abbracciavano continuamentesciorinando nomi di calciatori serbi che giocano in Italia, quelli che, chissà perché, sembravano amarciincondizionatamente, dicevano che il Kosovo è Serbia. Di più, sostenevano che il Kosovo è l’anima dellaSerbia e che a quella terra non rinunceranno mai. Le atrocità commesse dai serbi contro gli albanesi e ibosniaci? Spallucce. In realtà ai serbi ne erano toccate di ben peggiori. Gli altri popoli balcanici? Gli sloveniok, per carità la vita a nominare i croati, no ai montenegrini (e comunque il Montenegro non esiste). E la Bosnia, la Bosnia? Incalzo io. Sono nostri amici solo i serbi di Bosnia.

Siamo tornati a casa con i contatti di Zoran, Ana, Ljuba e pieni di riconoscenza verso di loro, peròcombattuti tra l’affetto che non potevamo non nutrire verso chi ci aveva veramente voluto bene, lì, el’inquietudine per quello che avevamo visto e sentito.

 

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(testo e foto di Angelamaria Fiori)

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