Causa la partecipazione dei Pixies, già a novembre scorso andare al Primavera Sound Festival di Barcellona, previsto per fine maggio, era diventato un obbligo morale.
Il Primavera Sound è un festival indie-rock giunto quest’anno alla decima edizione e il culto dei Pixies, nonostante i loro concerti siano cosa sporadica, è una cosa di dimensioni tali da far imbestialire significativamente i detrattori: ” Andare ad adorare quella palla di merda sudata di Frank Black, il filippino, Kim Deal che ora è diventata una strega orribile e Quell’Altro alla batteria lo lasciamo agli scemi senza fantasia, con tanti soldi da buttare e la passione per il karaoke”.
Prima di tutto, il Primavera Sound non è la cosa fangosa che uno immagina (comunque, di Woodstock ce n’è stato uno solo) ma un evento molto urbano, organizzato nel grande e funzionale spazio fieristico del Parc del Forum a Barcellona dove si arriva in metropolitana e non si campeggia. Cinque palchi, zona ristoro, bottiglie rigorosamente senza tappo, decine di bagni chimici, spazi per il cazzeggio, zona merchandising.
Secondo-poi, se non ci ripugnassero le virgolette, indie-rock sarebbe virgolettato. Articoliamo il concetto solo costretti con la forza e diciamo, a beneficio del grande pubblico, che indie-rock vuol dire rock alternativo (comunque, il pubblico delle cose alternative non è piccolo, considerato che al Parc del Forum non eravamo venti, non duecento e neanche duemila). In ogni modo, indie o no, gli organizzatori invocano come riferimenti musicali in primo luogo i Sonic Youth e gli Shellac; in seconda battuta, Pixies, Aphex Twin, Neil Young, Sonic Youth, Portishead, Yo La Tengo, Lou Reed, Wilco, The White Stripes, Dinosaur Jr, Violent Femmes, Motorhead, Spiritualized. E poi, per tornare ai Pixies, dobbiamo dire che gli scemi senza fantasia erano una folla oceanica che cantava tutte le canzoni dall’inizio alla fine, saltava, si dimenava, si commuoveva, urlava, fumava, beveva, si faceva le foto, si faceva (e basta). Manifestazioni anche moleste, purtroppo, che in genere impediscono il fotografare. E va be’. Riferiamo allora di altre cose, piccole al confronto, ma non del tutto insignificanti.
Dei Monotonix. Un trio garage-rock di Tel Aviv che ha fatto l’intero concerto in crowd surfing (il cantante, Ami Shalev, e i pezzi della batteria non hanno quasi toccato terra). Non una cosa memorabile, la musica, ma imperdibile tutto il resto: l’irsuto Shalev che si issa in piedi sulla cassa – sollevata dalle braccia del pubblico – e da lì si lancia sulla folla, il calo delle braghe dello stesso, la birra versata sulla cassa e bevuta al volo mentre la disgraziata percussione veniva suonata selvaggiamente, la ragazza (consenziente) cui a un certo punto si è ben stropicciato (e che dopo la fine del concerto continuava disgustata ad annusarsi i vestiti). Prima della fine del concerto, al culmine del delirio collettivo, i pezzi della batteria sono arrivati persino sugli spalti dove ci eravamo rifugiati sicuri di non venire coinvolti. Di lì a poco la possessione dei musicisti è scemata e mentre noi ancora ci guardavamo gli uni gli altri increduli, loro tornavano a calcare la terra e quatti quatti si ritiravano portandosi dietro piatti, sgabello, cassa e tutto il resto.
Riferiamo delle Cocorosie, in tour promozionale di un disco dalla copertina a dir poco raccapricciante, e in formazione particolarmente numerosa e articolata (esibizione diremmo felice!); dei Built to Spill (brevi ma intensi) in contemporanea ai Charlatans, degli Almighty Defenders, di cui abbiamo apprezzato il folclore (mica facile fare la parte del gruppo gospel-rock postmoderno!).
Inoltre, indie, rock e sottocategorie a parte, lo scopo degli organizzatori era anche quello di non limitarsi ad assecondare il rigurgito New Wave che imperversa da anni, ma di superare il fenomeno di diverse lunghezze: questo, supponiamo, il motivo della presenza di Marc Almond dei Soft Cell e della sofisticata performance dei Pet Shop Boys (il concerto di punta del sabato sera). Tremiamo, però, al pensiero di chi potrà essere coinvolto l’anno prossimo.
La variopinta fauna del festival ha costituito di suo, come previsto, un’attrazione costante. Le ragazze erano in gran parte d’accordo (anche perché o ci si concia così tutte, o si muore dalla vergogna): se non ti vesti da Ugly Betty non sei nessuno. E anche essere qualcuno, in una sfilata ’80 wave, dark, grunge, punk, quello-che-capita-basta-che-sia-ridicolo era oggettivamente un’impresa. Riuscita però al tizio che ha sfoggiato kilt, calzettoni e camicia a fiori per tutti e tre i giorni del festival. C’erano, claro que c’erano anche tantissimi portatori di maglietta (anche noi abbiamo sfoggiato): le più ricorrenti, a occhio, quelle dei Sonic Youth e dei Pixies. Ci abbiamo pensato dopo, sarebbe stato bello fare una statistica dei gruppi omaggiati via t-shirt. E oltre questo rimpianto e l’incredibile stanchezza dovuta agli orari estremi, saremmo tornati a casa convinti di non aver fotograficamente fatto abbastanza.
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(testo e foto di Angelamaria Fiori)
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