Gogol viene da Nikolaj Gogol, Bordello viene proprio da “bordello”. Eugene Hutz, ucraino migrante del post-Chernobyl e mente vulcanica del gruppo, è stato per un po’ in Italia dove ha imparato diverse cose, tutte politicamente scorrette. Il suo gruppo è nato nei tardi anni ’90 a New York come intrattenimento ai matrimoni degli immigrati e quasi subito, in maniera del tutto imprevista, ha superato i primordi esplodendo in un fenomeno che ha finora inanellato nomi come Jim Sclavunos, Steve Albini, Rick Rubin, Madonna.
Le tournèe dei Gogol Bordello hanno nomi programmatici come Fuck The Soundcheck, Gypsyfication Of Americanization, Alcoholympics, Tziganizatzia Balkanizatorov, East Infection, East Invasion, Know Your Gypsy Rights. Si vantano, tra le altre cose, di essere stati banditi dal CB/GB, di aver ricevuto diversi premi (e aver usato i soldi per scopi strettamente immorali), di essere stati battezzati da un articolo sul NY Times dal titolo “Gypsy punk international”. Hutz si è poi distinto come attore in “Ogni cosa è illuminata” e “Sacro e profano”, l’opera prima di Madonna regista. E proprio Madonna l’ha voluto ancora a cantare con lei (in rumeno) La Isla Bonita allo stadio di Wembley per il Live Earth del 2010. Per il loro concerto a Kiev, la città natale di Hutz, sono stati salutati dalla stampa con l’articolo “Ukrainian nightmare accomplishes American dream”. Sentitamente ringraziano.
Sulla carta la loro formula è semplice, semplicissima è la loro musica: punk-rock contaminato in primis con l’Est Europa, poi con qualunque altra cosa, Trans-Continental Hustle è il titolo del loro ultimo album, di crociata trans-culturale parlano loro per dire cosa fanno. Comunque, hanno una mission ufficiale, e l’hanno pubblicata qui. In più possono contare sul circo della loro scorrettissima presenza. Oltre l’Europa dell’Est, nella formazione non mancano – ovviamente! – rappresentanze di altre minoranze, tanto che i Gogol Bordello non bastano a contenerle tutte e così nascono altri folli progetti paralleli come il Jewishe Ukrainishe Freundschaft, il cui scopo era trasformare un bar bulgaro di New York in una specie di CB/GB del Gipsy Punk. L’ultimo approdo è il Brasile, dove Hutz ha recentemente vissuto e che lo ha folgorato.
Sul palco il pantalone di Hutz ha i colori del Brasile e la canotta ha su scritto Brasil. Abbiamo capito, Hutz, abbiamo capito. Il “secondo” di Hutz è il violino Sergey Ryabtsev, cioè Lucio Dalla versione zingara; russo è anche il fisarmonicista che risponde al nome di Yuri Lemeshev; il basso è etiopico e si chiama Thomas ‘Tommy T’ Gobena; appaiono poi insieme l’Asia e la Scozia incarnate nella non trascurabile figura di Elizabeth Chi-Wei Sun; abbiamo poi il rapper ecuadoriano Pedro Erazo, un chitarrista israeliano e infine, per non farsi mancare proprio niente, un batterista italiano in kilt. Non si può proprio dire che il concerto è un crescendo perché ogni pezzo è una nuova trovata e tutti cavalcano continuamente il palco da destra a sinistra e da sopra a sotto; noi di sotto abbiamo solo due momenti di requie con Hutz alle prese con pezzi un po’ più intimisti. Da sotto il palco siamo sovrastati da Hutz e dal violinista che in grandi balzi arrivano, vanno via, tornano, si issano sugli amplificatori. È con grande soddisfazione che Ryabtsev si offre ai fotografi, Hutz non si sottrae, Elizabeth Sun va e viene con una percussione diversa ogni volta; l’Africa e il Sudamerica, pure, hanno i loro momenti e non sfigurano.
Il centro della platea (se di platea si può parlare all’Atlantico Live) dev’essere stato una bolgia, visti i residui postumi sul campo e considerato che è impossibile stare senza saltare fino allo stremo delle forze (che stranamente non arrivano mai, e si vorrebbe che continuassero a suonare ancora e ancora). “Chi non salta Berlusconi è!” è l’urlo che si è levato dalla folla in attesa del bis, più tardi lo slogan è arrivato proprio da Hutz, non ricordo se prima o dopo “Santa Marinella”, il pezzo con alcune parole in italiano, incluso una bestemmia. Lì il pubblico è impazzito, come se non avesse già perso il senno da un pezzo, i più “freddini” tra noi probabilmente al terzo pezzo.
Il bis è stato generoso, li lasciamo congedarsi senza insistere e dopo averci salutato ci salutano ancora con Redemption song, che completa la nostra già significativa soddisfazione.
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(testo e foto di Angelamaria Fiori)
(Si ringrazia Roberto Panucci per la disponibilità accordataci)
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