Owen Pallett & Micah P. Hinson


Avevamo lasciato Micah, la sua chitarra citazionista e la bella moglie a cui avevano tolto l’audio a luglio scorso. Non lo dimenticheremo mai: anche se ora siamo quasi sotto zero, il ricordo di quel concerto ci fa immediatamente sudare. È  che in quella volta c’erano più di trenta gradi e l’umidità era oltre l’umanamente sopportabile; ogni tanto ci guardavamo l’un l’altro con aria interrogativa: ma si può sudare tanto?
Nel frattempo la terra ha percorso un bel pezzo del suo percorso di rivoluzione intorno al sole, noi abbiamo viaggiato, lavorato, fotografato, e Micah ha pubblicato un libro in spagnolo con una casa editrice che, dicono, fa copertine bruttissime.  Diventare autore non l’ha cambiato, osserviamo  prendendo mentalmente nota della camicia di flanella a quadri, le bretelle, i pantaloni skinny – ma non abbastanza  –  le scarpe da ginnastica, i soliti occhialoni neri. Nerd che più nerd non si può (santa pazienza!).  Nonostante l’accostamento lusinghiero con Morricone e Cash che qualcuno aveva usato per recensire Micah P. Hinson and the Pioneer Saboteurs, anche  questa volta Micah è da solo, però ci tiene a far vedere che non sarà lo stesso concerto di luglio: ha lasciato a casa la chitarra che uccide i fascisti e, preso da una gran voglia di giocare col distorsore, ha imbracciato l’elettrica. L’atmosfera del concerto è la stessa, la scaletta simile, lui sembra sempre struggersi mentre canta a occhi chiusi baciando il microfono, e sui volti nel pubblico, soprattutto femminili, si legge la stessa tensione partecipativa, solo meno sudata, della volta scorsa.  Micah ha qualcosa. Sì, gli si possono dire tante cose, soprattutto per l’irritante manifesto al nerdismo che ha deciso di rappresentare, però ha qualcosa.
Anche questa volta arriva il momento della bella moglie che, sempre muta, duetta con lui e poi viene affettuosamente baciata. Arriva anche il momento della promozione del romanzo di cui sappiamo che è una cosa scritta in un mese a ventuno anni dopo aver letto “Sulla Strada” 50 volte invece che 50 libri diversi.  Però il nostro eroe rende poco nell’autopromozione, non si ricorda il titolo.
Il bis è cosa rapida, anche perché è il turno di Pallett.
Sarà la crisi, pensiamo, ma mai come quest’anno ci sembra che tanti musicisti si siano offerti al pubblico da soli. Ci viene in mente la dichiarazione di Micah sulle belle canzoni che funzionano anche scarnificate all’estremo  (però perché mettersi ripetutamente alla prova?), ma tra i due, se c’è uno che sul palco basta davvero a sé stesso, è Pallett.  Senza gli Arcade Fire (l’eco di Suburbs non accenna a spegnersi: sono il gruppo dell’anno, c’è poco da fare)  si presenta con il violino, la tastiera e una ricchissima pedaliera da azionare coi calzini di spugna bianchi, un’attrazione irresistibile per tutti quelli nel pubblico dotati di macchina fotografica (ma anche solo del telefonino) che, al grido – I calzini! – si agitano e sgomitano con più molestia – se possibile – dei fotografi più molesti. Pallett usa dei loop per suonare sopra le cose che suona e ha, per giunta, una bella voce: il risultato è un pop orchestrale barocco che si stenta a credere prodotto da una sola persona dal vivo. Ci tocca anche una cover di Odessa, dei Caribou (altro gruppo che imperverserà nelle classifiche di fine anno).  Insomma, ci guardiamo alla fine con una faccia da “Però!”: eravamo arrivati solo superficialmente incuriositi da una cover di Mariah Carey e andiamo via sapendo che  il pensiero di quella pedaliera miracolosa stenterà ad abbandonarci.

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(testo e foto di Angelamaria Fiori)

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