Micah si dice “maica”


Circolo degli Artisti, 19 luglio. Micah si dice maica, ce lo conferma lui, presentandosi con nome, secondo nome, cognome, provenienza. Abilene (che si pronuncia ABBA-leen), Texas.

Abilene ce la immaginiamo come un posto triste dove si riesce a sfangare l’adolescenza solo rifugiandosi in qualche paradiso artificiale, perché così è stato per Micah (e perché è il Texas di George W. Bush, di cui Micah non è esattamente un detrattore). Musica, droghe, il miracolo – una modella di Vogue (l’ossessione per la bellezza, scrivono) – un abisso ancora più profondo.

È una maledizione, un mito ancora qui confermato, quello per cui chi ha guardato lo sprofondo poi parla come per rivelazione divina (e noi, giustamente, pendiamo dalle sue labbra).

Il paragone più ricorrente è quello con Johnny Cash, ma con anche altri cantautori della tradizione americana. Un frontale tra Johnny Cash ed Elvis Costello, il commento a caldo di un’amica dopo il concerto. Elvis Costello per l’aspetto. Johnny Cash per l’impostazione della voce, che però è molto più evidente nel disco che qui, dal vivo (peccato). Qualcuno arriva addirittura a Tom Waits. Nomi impegnativi, vorrà dire qualcosa.

Sul palco arriva dopo che è stata fatta piazza pulita di tutto (prima, l’esibizione del trio Une Passante) ad eccezione di 4 ventilatori, la custodia della chitarra, il microfono, un asciugamano. Evidentemente, nessuno dei Pioneers Saboteurs.

Il disco appena uscito si chiama Micah P. Hinson and The Pioneers Saboteurs, ma è un gioco, come per Micah P. Hinson and The Gospel Progress (2004), Micah P. Hinson And The Opera Circuit (2006), Micah P. Hinson and The Red Empire Orchestra (2008). Micah P. Hinson e la Mutua delle Sementi Agricole, scherza un mio amico. Comunque, entrati da poco, siamo già zuppi come spugne (pensiamo di non farcela, a stare fino alla fine, no, non è proprio possibile) e, a vedere il palco così sguarnito, cerchiamo di soffocare un moto di delusione, per via che l’ultimo, bellissimo, disco di Micah rigurgita di strumenti, soprattutto archi. Così tanti che, per il solito divertissement dei confronti, è stato anche scritto Johnny Cash che duetta con Morricone. Qui invece è solo voce e chitarra. Più la preziosissima compagnia dei ventilatori, l’asciugamano, il cerotto a un dito (srotolato, riarrotolato, staccato, riattaccato, cambiato, infine – basta! – definitivamente tolto). Lui è davvero magro, più di quanto siamo abituati a vederlo; scarpe Nike, jeans, maglietta e bretelle. La montatura degli occhiali nera, vistosa. Un manifesto al nerdismo. La chitarra porta la scritta “This machine kills fascists”, omaggio a Woody Guthrie, e poi la foto di copertina dell’ultimo disco, il seno nudo della moglie con appiccicate sui capezzoli delle croci di nastro nero, una pistola spianata in mano (roba da film porno nazista, avevo pensato la prima volta che l’ho visto). Grondiamo di sudore fin dalle ossa, però ascoltiamo con trasporto le canzoni del primo disco, quello del 2004. Avanziamo richieste, ci accalchiamo verso il palco nonostante il caldo, vediamo che lui che ogni tanto si asciuga, si sistema i ventilatori. Sulla sinistra si intravede la moglie, seduta in un vestito vintage bianco e rosso, e stivali. Si sventaglia.

Funziona anche solo voce e chitarra, Micah, funziona anche senza niente sul palco, solo cavi, microfono e poco altro. “Close your eyes”, si leva dal pubblico. Però, pur suonando da solo, lui ha una scaletta, un foglietto maciullato, per terra, che ogni tanto raccoglie e consulta. Legge, lo riappoggia con cura a terra, ricomincia. Sembra assentarsi quando chiude gli occhi, noi non rimpiangiamo la schiera di archi che ci eravamo ingenuamente aspettati (come poteva essere, al Circolo?). Il nuovo disco arriva nella seconda parte del concerto e la sostanza delle canzoni lì è sostenuta dall’impianto orchestrale non scade: i pezzi sono sempre quelli, e sono belli. Poco prima della fine dice che farà presto, visto che nessuno qui vuole morire. In effetti, qualche defezione già c’è. Chiama la moglie sul palco, lei fa finta di cantare insieme a lui, torna via. Poco dopo finisce, non esce di scena che subito rientra, richiama la moglie, stessa finta di prima. Però si amano e si vede. Nel 2007, alla fine di un concerto, lui le ha chiesto pubblicamente di sposarlo e qui il parallelo con Johnny Cash e June Carter è d’obbligo (però June Carter cantava eccome!). Mentre la gente sfolla – questa è veramente la fine – la dolce mogliettina risbuca da dietro e recupera per terra la preziosissima scaletta.

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(testo e foto di Angelamaria Fiori)

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