I numeri ufficiali del festival delle orchestre di trombe a Guča sono cinquecentomila persone e tre milioni di litri di birra. Dobbiamo dire che sì, sono numeri plausibili.
Pochi giorni prima della partenza ci eravamo imbattuti in un blog in cui si consigliava l’uso dei tappi per leorecchie, la preparazione fisica per gambe, braccia, stomaco, si informava del fatto che i vestiti utilizzatisarebbero stati da bruciare e si faceva presente che il miglior modo per essere sicuri di sopravvivere era non andare.
Guča è un paese di duemila anime a tre ore di pullman da Belgrado, e nel viaggio si possono incontraresignore affettuose e apprensive che non smettono più di prodigarsi in raccomandazioni e consigli peraffrontare il festival.
La prima cosa vista a Guča è stata una tenda montata dentro al fiume (un torrentello che sarebbe poidiventato una fogna a cielo aperto) intorno a cui la gente ballava e beveva. Poi sul pendio un grappolo ditende montate in pendenza, poi gente in giro che sembrava venire direttamente da Woodstock, come seWoodstock fosse stato l’altro ieri. È a ragione, ci siamo detti, che il festival di Guča è anche noto come “la Woodstock dei Balcani”.
Il nostro contatto è Johnson Drobina. Per fare amicizia gli abbiamo offerto una birra (a Guča si fa amicizia con la gente anche solo acciaccandogli il piede, con una birra uno praticamente si lega per la vita). Conlui, allora, avevamo parlato dei massimi sistemi, in particolare di musica. Ci dice, questa è musica che nonimporta di dove sei, ti investe come un treno e ti fa ballare anche contro la tua volontà. Gli chiediamo deibiglietti per il concerto di Bregovic, abbiamo letto che sarà l’unico evento a pagamento. Biglietti?
Una ressa allo stadio che neanche al concerto del Primo Maggio. Come al Primo Maggio, le telecameresul pubblico: le nostre facce in diretta sulla televisione serba! La gente è FE-LI-CE, balla, si dimena, salta, siguarda commossa, si abbraccia, urla al passaggio della telecamera, canta, beve a scatafascio, ulula con lavuvuzela, qualcuno cammina gattoni tra le gambe degli altri. Non strattona, non sgomita, non molesta ilprossimo, non è il Primo Maggio.
Dopo due giorni pieni di festival siamo noi a spiegarlo agli altri. Una mattina che avevo un mal di testafotonico, l’apparizione dello svedese. Praticamente, Stieg Larsson magro. Vuole sapere. Stieg, che dire?Noi siamo qui da due giorni e mezzo e abbiamo capito che è vero che i Serbi sono matti. Lo dicono proprioloro: Serbian people are crazy. Il festival? L’intero paese è il festival. Dalle 10 del mattino alle 6 (sempre delmattino) decine e decine di orchestre di fiati infestano ogni angolo del villaggio suonando tutte le variazionidel repertorio tradizionale di cui sono capaci. Note e accordi dopo un po’ ti diventano familiari, basta pocoper riconoscere i pezzi e farti trascinare da quel vibrato-sfiatato che tanto li contraddistingue: vedrai cheanche se sei un tipo legnoso finirai per dimenarti come un ossesso pestando sull’asfalto appiccicoso di birra.
Veramente, il gioco a cui giocano loro prevede la scelta di un buon ristorantino in cui piazzarsi, poi di untavolo da aggredire. Allora è fatta, e iniziano a spolmonarsi dritto nelle orecchie dei commensali che primafanno per divertirsi, sorridono, ballano, poi capiscono che è un assedio e che non verranno lasciati andare,né i loro timpani saranno risparmiati, finché gli orchestrali non verranno congruamente remunerati. Ela congruità la decidono loro, dato che il fiato che si ritrovano supera di gran lunga la resistenza degliassediati. Lo stesso ristorantino può accogliere più orchestre e ognuna fa quello che gli pare, però tendendosempre, come regola generale, all’aumento della cacofonia totale. Cacofonia è un termine che dopo Gučanessuno dovrebbe più usare in altri contesti.
La Dragačevski sabor di Guča , cioè il festival, è in realtà una competizione: ci sono le eliminatorie, prima,così che al festival competono solo poche decine di orchestre. Leggenda vuole che Miles Davis dopo esserestato a Guča abbia detto: I didn’t know you could play trumpet that way.
Comunque, dovessimo dire chi era bravo e chi no, come si chiamavano le orchestre migliori, chi ha vinto e perché, non sapremmo proprio. Perché il festival è soprattutto ciò che succede dopo l’ultima esibizioneufficiale, quando la strada principale, ancora più che nel resto della giornata, si riempie di folla ribollente alritmo di chissà quante orchestre che suonano e che gareggiano, con molta più energia di quelle sul palco,a chi fa più forte. Nella piazza principale la statua del trombettista diventa un termitaio umano e intornoa quella, altro che ballo di S. Vito, nessuno può fare a meno di ballare. Non ci si disidrata per lo sforzoperché tutti offrono da bere a tutti. La generosità è tanta che potrebbe pure capitarti di venir agguantatoda qualcuno che in un secondo infila in bocca il collo di una bottiglia di rakija e ti obbliga a una presa sostanziosa.
Tutti gli italiani che avevamo conosciuto erano partiti quasi subito. I più resistenti ritornavano via dopo duegiorni, non senza aver preannunciato la pazzia a noi che rimanevamo ancora. Resistevamo e avremmoresistito fino al concerto di tale Miroslav Ilić, un cantautore folk capace di far commuovere tutti, fino al più spietato paramilitare ultranazionalista. Da dire, però, folk nel senso vero di folk, cioè “O campagnola bella”.
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(testo e foto di Angelamaria Fiori)
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