Pe’ Sant’Antognittu nostro

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“Pàra Pappàra Pappà Pappà Pappàparapà….

Para Pappàra Pappà Parapà Parapàpparapà…..”

Non c’è stato risveglio di S.Antonio, fin da quando riesco a ricordare, che non mi abbia lasciata rapita dal trillo della banda di ottoni, segnale inconfutabile dell’uscita del Santo dalla casa del suo Custode annuale. Quel suono gioioso che di primo mattino la prima domenica successiva al 17 di gennaio giunge alle mie orecchie da lontano segna l’inizio della festa, un richiamo irresistibile a correre fuori per unirsi all’enorme flusso di persone ed animali che  poco a poco si riverseranno nelle strade.

Quand’ero piccola impaziente aspettavo che mio padre fosse pronto ad uscire e insieme a lui raggiungevo la Passeggiata, una strada pedonale circondata da due enormi marciapiedi dove oltre  a me sembravano essersi riuniti molti altri compaesani. Ricordo ancora quando non capivo bene cosa sarebbe accaduto, sebbene fin da allora fosse irresistibile cogliere l’attesa sul volto di adulti e bambini che di tanto in tanto si guardavano attorno sperando che prima o poi qualcosa accadesse.

C’è chi parla con un amico, qualcun altro saluta i figli di un conoscente “Quanto siete cresciuti!…”

Passeggini, qualche bambino scorazza qua e là, qualche signora sfoggia la sua ultima pelliccia, c’è chi fa colazione, chi prende un aperitivo, chi con calma stoica si gode la scena da una panchina o un balcone, riservandosi ogni tanto di aguzzare lo sguardo e coprirsi con una mano il capo dalla debole ma diretta luce del sole invernale. Chi tra una chiacchiera e un’altra allunga il collo per non perdere di vista l’orizzonte, mentre qualcun’altro distrattamente legge il giornale.

Finché a un certo punto ecco che gli sguardi convergono in un’unica direzione, mentre una massa informe color marrone si avvicina lentamente preceduta dal suono delle trombe e da allegre grida: in testa al corteo la statua del Santo, portata dal suo cavaliere è seguita da una folta schiera di cavalli, che in tutta la loro fiera bellezza marciano, lasciandosi guardare.

Pony, levrieri, stalloni da corsa, puledri purosangue, meticci, pacifici asinelli e qualche mulo, tutti addobbati a festa, con fiori, stoffe e coccarde.

Sopra di loro ci sono fantini professionisti, cavallerizzi acclamati, cavalcatori inesperti e montatori traballanti alle prime armi.

Tutti tra il pubblico chinano la testa e si fanno il segno al passaggio del Santo, gridando poi i nomi dei cavalieri che riconoscono:”Guido!” “Giovanni!”, “Una foto col piccoletto!” tra un “oh!” stupito e un silenzio atterrito di un bambino, uno sguardo perso in fantasticherie di qualche altro, un po’ di nitriti delle bestie spaventate nell’agitazione generale, un commento sul cavallo e come sempre si conviene in un paese, anche due sul cavaliere.

In coda alla processione la parte che da sempre mi ha emozionato di più: i musicisti, seduti in cima ad un carretto di legno anche loro vestiti con camicia bianca, gilè e berretto blu, che suonano con gli ottoni il tradizionale inno al santo, seminando intorno un clima di gaia spensieratezza, appartenenza, orgoglio e festa.

Intorno cani, gatti, strani uccelli, pesci, furetti, conigli, animali per lo più domestici occupano le strade a perdita d’occhio. In gabbietta o al collare, tra incontri fatali, scodinzolii, soffiate, graffi e strani versi, una folla mista a mezzogiorno si riversa puntuale fino alla piazza accanto al Duomo per assistere alla tradizionale benedizione degli animali, sgranocchiando mostaccioli, spiluccando un cartone di olive, sognando un palloncino ed evitando attenti le montagnole di cacca di cavallo abbandonate qua e là.

La cacca di cavallo: non c’è dubbio che anche quello sia uno dei segnali distintivi della festa.

Avrò  avuto 6 anni la prima volta che mi sono chiesta come fosse possibile che in virtù di una consuetudine paesana un giorno l’anno si potesse acconsentire alla seppur santa comunque fetente e impiastricciante defecazione equina nelle strade della città. La fetida presenza è tradizionalmente solita perdurare almeno fino a sera, rendendo difficile la deambulazione e generando non pochi problemi di spostamento, soprattutto laddove è richiesta velocità negli orari di punta.

Qualche tempo dopo la gioventù, quando riuscire ad alzarsi per la benedizione di mezzogiorno significava giungere con fatica in piazza, ancora storditi dalla performance della notte precedente e con gli occhi semi-chiusi dal sonno, la vera scommessa è sempre stata riuscire ad arrivare a fino al bar senza pestarne almeno una…..

Poi il pranzo di S. Antonio, lauto, ricco di sughi e di carne, di dolci, ciambelle a zampa e vino, mentre qua e là nel paese si riaprono le cantine, si brinda all’amicizia e alla felicità assaporando le primizie enogastronomiche locali, augurandosi buona fortuna per l’anno che verrà fino a giungere ebbri al momento tanto atteso della Torciata.

In realtà la preparazione psicologica alla Festa comincia sempre qualche giorno prima, nella ricerca del vestiario, la scelta del cappotto più comodo e meno bello, l’acquisto delle torce, l’analisi del percorso della processione, facendo piani organizzativi con gli amici, io porto il vino, io le coppiette, tu le ciambelle a zampa. Una volta fuori da cantine e tinelli, comunque, l’appuntamento certo è quello delle 19 a piazza del Duomo.

Dappertutto fiumi di persone si dirigono febbrili verso il vecchio borgo provenendo da ogni direzione. Il centro storico è gremito, dalla porta della chiesa lungo tutto il corso si stende un mare di cappelli rossi ondulanti,un fervore di persone dipinto sotto le luci gialle dei lampioni.

La gente guarda affacciata dal Pincetto, dalle finestre delle case e dai balconi: nessuno vuole perdersi lo spettacolo, tutti aspettano l’uscita del santo. Solo quando si spalancano le porte del Duomo, fuochi d’artificio solcano il cielo buio e i volti si rivolgono ad ammirare stupiti gli effetti di luce. Al termine dello spettacolo pirotecnico la banda comincia a suonare, si apre un varco tra la folla, i torciari accendono i grandi ceri e danno il via alla loro marcia, che precede lenta l’effige del santo.

Comincia così la lunga processione di fuoco che da un secolo unisce abitanti di tutte le razze e le età, tipologia sociale, gruppo amicale. Il corteo luminoso che congiunge passanti e residenti, partecipanti e osservatori, scettici e curiosi, avvocati, antropologi, ingegneri e psicologi, meccanici, elettricisti, impiegati comunali, neofiti e affezionati. Il luogo dove in nome della socialità si fondono eretini ed immigrati, culture di appartenenza e d’acquisizione, tradizione e innovazione, sacro e profano.

Tutti verso la casa del santo, e forse anche oltre, a segnare il nostro passaggio su questo territorio nello spazio e nel tempo, nel folklore e nell’appartenenza a radici profonde e lontane.

“E ‘n’antra volta sola sola!” “Evviva Sant’Antogno!!!!!!!!!”

“E che ce lo sémo scordato…?” “Evviva Sant’Antogno!”

“Pe’ tutti quelli che ce stanno a guardà?” “Evviva Sant’Antogno!”

“E pe’ Sant’Antognittu nostru, bello, gajardo e tostu……” “….evviva Sant’Antogno!”

Note a latere da Wikipedia:

Sant’ Antonio Abate, detto anche sant’Antonio il Grande, sant’Antonio d’Egitto, sant’Antonio del Fuoco, sant’Antonio del Deserto, sant’Antonio l’Anacoreta (Qumans, 251 circa – deserto della Tebaide, 17 gennaio 357), fu un eremita egiziano, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati.

Sant’Antonio fu presto invocato in Occidente come patrono dei macellai e salumai, dei contadini e degli allevatori e come protettore degli animali domestici; fu reputato essere potente taumaturgo capace di guarire malattie terribili.

Di grande importanza la festa di Sant’Antonio Abate che si svolge la domenica più vicina al 17 gennaio a Monterotondo un paese alle porte di Roma.

La festa è organizzata dalla Pia Unione. Ogni anno una famiglia Monterotondese ospita la statua del Santo nella propria abitazione e la terrà  aperta alle visite dei devoti. La domenica in cui si festeggia Sant’Antonio la statua viene prelevata dalla casa in cui si è trovata per l’intero anno e viene portata per tutte le chiese del paese. Tale rito si svolge a cavallo: aprono la cavalcata tre cavalli con in sella al centro chi ospiterà da quel giorno per un anno intero la statua del Santo, a destra e a sinistra chi lo ha ospitato l’anno precedente e chi lo ospiterà l’anno successivo; seguono una schiera di cavalli tutti bardati con fiori e altri addobbi, infine la carrozza con sopra la banda del paese che suona delle musiche specifiche per l’occasione. Quando il Santo arriva ad una chiesa il parroco di questa esce sul vestibolo e da la benedizione agli animali. La sera si svolge la Torciata, dove, in processione, si accompagna il Santo dalla Cattedrale del paese alla nuova abitazione che lo ospiterà. Aprono la processione i torciari (coloro che portano le torce) che canteranno e balleranno durante tutto il percorso e la chiude il Santo con la banda. Durante questa giornata gli abitanti usano portare un gilet nero, una camicia bianca e un cappello da carrettiere double face: nero durante la mattina dove la festa è prettamente religiosa e rosso la sera dove festa diventa più mondana; il cappello ritorna nero quando il Santo entra nella nuova casa. La torciata è conclusa o preceduta dai fuochi d’artificio con la visita al Santo nella nuova abitazione.

(testo di Valeria Frangiolini, foto  Roberto Simeoni)

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